XXX Domenica Tempo Ordinario
La cattedra del peccatore: l’umiltà
(Siracide 35,15-17.20-22; 2 Timoteo 4,6-8.16-18; Luca 18,9-14)
Ascoltiamo il Vangelo:
“In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato»”.
Per essere grandi bisogna innanzitutto saper essere piccoli, l’umiltà è la base di ogni vera grandezza (Papa Francesco). In questa esortazione del papa troviamo la soluzione e la spiegazione del vangelo odierno. Davanti a Dio ciò che conta è l’umiltà. Lo ha ricordato anche la Vergine Maria nel suo cantico di lode a Dio: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente ….. perché ha guardata all’umiltà della sua serva”.
Tutto nasce da una bella preghiera pronunciata dal fariseo che è salito al tempio. “Ti ringrazio…” ma poi si perde, offuscato ed ammaliato dal suo egoismo, nelle accecanti accuse verso gli altri. Non si può pregare Dio ed accusare i suoi figli, è una preghiera ingiusta e pretenziosa. Nessuno può giudicare perché non si conosce fino in fondo la verità. L’unico che potrebbe giudicare è Dio e se ne astiene per non condannare ma salvare e l’uomo che ne è incapace si riveste di autorità, si sente superiore e pronuncia giudizi e condanne senza appelli. Dio che è Padre difende i suoi figli e non tollera che noi ci permettiamo di giudicare. “Chi giudica non ha tempo per amare” diceva Madre Teresa di Calcutta. Il nostro tempo, i nostri sentimenti debbono essere doni agli altri e non condanne, rifiuti, analisi e giudizi privi di ogni senso di rispetto, compiutezza e accoglienza.
Diverso è l’atteggiamento del pubblicano rimasto in fondo al tempio, non osa nemmeno avanzare, non alza lo sguardo e riconoscendo il suo peccato, accusa se stesso e chiede il perdono. Si umilia davanti a Dio, apre il suo cuore al soffio della misericordia invocata. Lui viene lodato, posto in cattedra, perché insegna come ci si relazione con Dio, mentre il fariseo se ne tornò a casa sua non trasformato da Dio, ma ulteriormente pieno di se stesso. Chi incontra Dio deve sempre farlo riconoscendo la sua paternità, aprendosi al suo soffio rigeneratore e non chiudendosi nella sterilità del suo agire anche se tecnicamente perfetto ossequioso delle regole ma vuote e privo di vita.
Riconoscersi peccatori davanti a Dio significa onorare la verità ed essere aperti al contatto ristoratore e rigenerante. Così facendo il pubblicano riceve il perdono, l’amore di Dio, non perché è stato umile, potrebbe essere un titolo di merito, ma perché consapevole della propria debolezza e fragilità si è aperto all’incontro e alla novità che scende benefica nella sua vita. Dio si china sempre dinanzi a chi si rende disponibile al suo amore, al soffio vitale della rigenerazione. Ogni volta che Dio si avvicina all’uomo occorre solo non scansarsi perché lui possa fare centro. Ecco l’umiltà: lasciarsi raggiungere da Dio. Finestre aperte, fiori dischiusi, strade da percorrere, incontro da vivere.