Sottomettersi al regime della libertà.

di Giuseppe Gravante, XVI Domenica per annum – Anno A

Sap 12, 13.16-19; Rm 8, 26-27; Mat 13, 24-43

Tu sei buono, Signore, e perdoni.

Una delle cose più tristi e penose per l’essere umano è quella di smettere di sognare o, peggio ancora, di pensare. Vivere il quotidiano e, nello specifico, il proprio lavoro come momento di grande progetto e occasione di crescita, non significa vivere in un’illusione; infatti, è palese come solo i grandi orizzonti – anche un po’ visionari – siano capaci di offrire un senso all’agire concreto. Tuttavia, nello scegliere questo percorso, è necessario anche far propria la convinzione di esser vocati ad affrontare notevoli difficoltà; in primo luogo, il dover far fronte allo smarrimento causato dallo scherno altrui, alimentato, questo – la maggior parte delle volte – dal disincanto di coloro che non ne condividono gli orizzonti. In seconda istanza, l’assenza di risultati tangibili a breve termine.

Bisogna saper accettare il fatto che le grandi mete si raggiungano solo imparando a superare crolli emozionali, deviazioni, contraddizioni. Tutto ciò è una gran fatica e può scoraggiare.

Non diversamente dovettero andare le cose per i primi cristiani, per le prime comunità della storia. La grande convinzione di costoro era quella di credere nell’imminente “venuta” del Regno; tuttavia, passarono generazioni, anni e con essi l’entusiasmo dei primi tempi. Ci si rese conto come l’avvento del Regno non fosse preannunciabile o imminente, che l’essere cristiani non consistesse nel tramutare la propria vita in una processione gloriosa di santi, bensì un atto di resistenza nella tentazione, nella persecuzione, nello scandalo della commistione all’interno della Chiesa.

Ben presto ci si accorse del pericolo di vedere il seme gettato dal seminatore non crescere, di essere portato via dagli uccelli, bruciato dal sole o soffocato dai rovi (Cfr. Mt 13, 3-6).

La vera domanda, allora, consiste nel chiedersi: “come imparare a resistere in attesa del Regno?”.

Il vangelo di questa XVI domenica del tempo per annum narra le parabole del granello di senape e del lievito. C’è una grande sproporzione fra la piccolezza degli esordi (il seme) e la grandezza della fine (l’albero). Ma perché si possa compiere questo prodigio è necessario che il seme sia interrato e che muoia (Cfr. Gv 12, 24). La chiave di volta della prima parabola è certamente Gesù, l’evento della sua passione unito alla sua morte. Lo stesso vale per la parabola del lievito: solo immergendosi, sciogliendosi, confondendosi con la farina il lievito può farla fermentare. Non c’è altra via, meno che mai quella della distinzione e della separazione.

Le due parabole presentano sostanzialmente le uniche leggi, unite all’Amore, che sussistono nel Regno: la piccolezza e la commistione di lievito e farina che donano all’uomo la facoltà di resistenza alla contraddizione e al saper sopportare l’incompiutezza.

Il tempo storico in cui soggiorniamo è quello della misericordia; combattiamo lungo le rive della concessione divina di poter cambiare, convertirsi al suo progetto d’amore. L’uomo, sottoposto al “regime della libertà” può mutarsi da zizzania a buon operatore del regno. Questo è il tempo per imparare a discernere il bene dal male, per coltivare la pazienza, per non peccare di presunzione volendo affrettare il giudizio.

La tentazione odierna è quella di non riuscire a vivere nell’ordinario con le sue dinamiche. La parabola della zizzania, invita a prendere oggi posizione a favore del Regno, ad averlo come orizzonte delle proprie scelte e dei propri desideri, a trovare nel Regno il senso dell’agire.