La vite della fecondità.

At 9, 26-31; 1Gv 3, 18-24; Gv 15, 1-8

A te la mia lode, Signore, nella grande assemblea.

Il cambiamento di mentalità che in questi decenni ha pervaso l’Europa, ha favorito l’acutizzarsi di una concezione politico-economico strettamente congiunta alla capacità produttiva di un popolo. L’uomo, di conseguenza, ne subisce il retaggio e, la sua stessa dignità, è definita paradossalmente da una scala di valori fondata sulle abilità produttive: “Tu vali, certo, ma solo se produci e consumi”. Tale ideologia, evidentemente, è la risultante di una riduzione inquietante e deprimente. Il rischio acclarato, pertanto, consiste nella progressiva “scomparsa” dalla comune attenzione degli anziani, dei disabili, dei poveri e di tutti coloro i quali non sono né produttori né consumatori. Tuttavia e fortunatamente, il gioco delle dignità non si definisce in cifre; il vangelo stesso preferisce esprimersi in termini di fecondità piuttosto che di produttività: «In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15, 8).

L’immagine della vite utilizzata nella narrazione giovannea ha come background il mondo veterotestamentario. Il popolo di Israele è la vite piantata, custodita, coltivata dal Signore, anche se spesso tale metafora è utilizzata per denunciare l’infedeltà di Israele stesso produttore di uva cattiva.

Il vangelo, dal canto suo, ne fa una questione cristologica: è Cristo stesso la vite. È lui la «vera vite» (Gv 15, 1), l’incarnazione del popolo eletto, fedele e santo. Gesù Cristo è il mediatore della grazia, il ponte tra Dio e gli uomini e in virtù di questa costituzione in lui si creano le condizioni di accesso alla relazione con il Padre. Cristo è la vite e i suoi discepoli sono i tralci, è questo il senso di tal espediente letterario. Esso, inoltre, trova anche perfetta concretizzazione sia sul versante personale sia su quello ecclesiastico dell’uomo: la comunità innesta il suo esistere e la sua missione in Cristo sempre presente in essa.

Il vangelo insiste sul verbo “rimanere”. La sua funzione è chiara: intende esprimere una condizione necessaria tra il discepolo e il Risorto, una reciproca correlazione di comunione. Ciò è possibile per la risurrezione che fa sì che il Cristo sia presente nella sua comunità in ogni tempo e in ogni luogo. Rimanere esprime uno stato di quiete, ma che nel vangelo diventa presupposto di dinamismo e operosità spirituale: «chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto» (Gv 10, 5). Rimanere è quindi un evento che designa la maturità del rapporto del credente con il suo Signore, dice l’amore del discepolo per il Signore stesso.

In conclusione, è evidente come il percorso della comunione richieda costante esercizio, purificazione e continuo desidero di miglioramento; tuttavia, la misericordia del Signore è sempre più grande della nostra debolezza: «Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3, 20). La consolazione promessa da Gesù è in ogni dove straripante e lenitiva: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15, 7); in essa ci si ritrova, in lei ci si forma e ancora in lei si generano quelle buone forze atte a costruire una vita cristiana rispondente alle attese del Messia.

Giuseppe Gravante