IV Domenica di Pasqua

Le spalle di Dio sono il trono dell’uomo. Lui conosce, difende, ama

(Atti 4,8-12; 1 Giovanni 3,1-2; Giovanni 10, 11-18) 

 

Ascoltiamo il Vangelo:

 

“In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio»”.

 

Nelle Catacombe di Priscilla, Roma, si trova l’icona del buon pastore. Risale alla seconda metà del III secolo ed è una delle prime immagini che raffigurano Gesù. È rappresentato come il pastore buono che porta la pecorella sulle sue spalle. Racconta tutta la tenerezza, la premura e la cura con cui Gesù si relaziona col suo popolo che viene paragonato ad un gregge. Lui stesso si autodefinisce pastore, ma afferma anche che è buono. Questa bontà è certificata dal fatto che egli dona la propria vita per le sue pecore. Non solo “odora di pecora”, come direbbe papa Francesco, ma, addirittura, muore per esse. Chi è capace di dare la vita, ancor prima le difende, si prende cura e premura, le guida ai pascoli, le protegge dai pericoli, le difende dalle aggressioni. La vita del pastore era in mezzo alle pecore. La loro condivisione era così totale che venivano considerati contaminati e impuri a motivo proprio della loro presenza in mezzo al gregge.

Anche Cristo si è contaminato nel momento dell’Incarnazione perché è venuto a condividere “in tutto, fuorché il peccato” la nostra condizione umana. Una solidarietà abbellita ed impreziosita dalla presenza, dal coinvolgimento, dall’aver assunto la stessa natura e condizione di coloro che vuole servire, salvare e condurre al Padre. Fare strada insieme vale più che solo indicarla. Gesù non è un navigatore che indica con precisione e premura, ma condivide la stessa strada, fatica nel percorrerla in salita, gioisce e si rigenera in discesa, gode della compagnia di coloro con cui si accompagna. Ascolta chi ha da raccontargli, consola chi necessita di parole incoraggianti. La sua presenza è dono di sé stesso. È dare la vita. Questo dono non lo espleta solo, eroicamente, sulla croce, ma lo partecipa goccia a goccia. Una madre non è generatrice di vita solo nel momento del concepimento o del parto, ma ogni volta che allatta, accarezza, asciuga una lacrima, consola e conforta, incoraggia ed ammonisce per premura. 

La presenza accanto a qualcuno come condivisione e ricamo di sentimenti è come una flebo continuativa innestata nelle vene della vita umana. Quando siamo deboli, incerti, scoraggiati, delusi, quando abbiamo bisogno di sorsi vitali; se li riceviamo da coloro che abbiamo accanto sono essi che ci fanno riprendere il cammino, ci rimettono in gioco, ci incoraggiano. Ad essi dobbiamo gratitudine e riconoscenza perché è come se ci ridanno vita e voglia di vivere. Gesù è così. È grembo che genera, è acqua che feconda, è abbraccio che rincuora, è fiducia che riaccende, è pastore che dà la vita per le sue pecore. E una di queste sono io, sei tu.