Nessuno potrà mai toglierci l’amore di Dio 

Gb 7, 1-4.6-7; 1Cor 9, 16-19.22-23; Mc 1, 29-39

Risanaci, Signore, Dio della vita

Dedicato a due cari amici in difficoltà

 

Tra le trame della liturgia odierna – sempre ricca nella proposta letteraria – spiccano con vigore le vicende di Giobbe, un uomo giusto e timorato di Dio ma, suo malgrado, provato con ostinazione nelle cose a lui più care. Il libro biblico che ne narra le vicende e che da lui stesso prende il nome, a differenza di quanto si possa ritenere o pensare, costituisce uno spazio sacro d’azione complesso e strutturato; per giunta, poi, non risolvibile da espressioni riduttive del tipo: “la pazienza di Giobbe” (divenute purtroppo consuete nel linguaggio comune). Si avrà modo di scoprire, infatti, che di tutto si può parlare tranne che di pazienza.

Giobbe è un uomo ricco, felice e appagato, non c’è nulla che gli manchi o che gli sia motivo di lamentela. Nel prologo dell’opera però – in maniera alquanto inconsueta – ci si ritrova di fronte a un dialogo live tra satana e Dio. Quest’ultimo – imprevedibilmente – concede al “seduttore” il permesso di tentare Giobbe e di colpirlo negli affetti, seppur non nella vita. Il prologo, allora, assume una chiara funzione definitoria: imputare il male a satana e non a Dio; stabilire inoltre, che non potrà mai esserci scontro epocale tra bene e male: Dio è sempre superiore ed è proprio per questo che al diavolo non è concesso di privare Giobbe della vita.

Afflitto dal dolore, Giobbe è visitato da tre amici, ognuno foraggiato di una personale visione della sofferenza e dell’angoscia. Equipaggiato anche, di una tradizione ben salda, radicata in una mentalità anziana intrisa della logica della retribuzione: il dolore, dunque, è proporzionale al peccato commesso. Essi, pertanto, sono conduttori di una sapienza-tradizione sul male ben definita; lo interpretano nettamente e senza sfumature: o esso è retribuzione per un peccato commesso, oppure una vicenda dal valore didattico-pedagogico. Tuttavia, nel duro confronto con Giobbe, ogni tentativo di interpretazione deve arrendersi alla prova dei fatti. Questi si mostrano infondati e incapaci di decifrare il male. Giobbe si ribella, giunge persino a “bestemmiare”, vale a dire ad accusare Dio della propria situazione, maledicendo il giorno del proprio concepimento.

Solo al termine del libro e, dunque della contestazione, Dio si fa vivo, risponde a Giobbe. Una risposta, tuttavia, che delude le attese. Dio stesso non si sofferma nello spiegare il perché del male, bensì preferisce imboccare la via della potenza. Giobbe sembra comprendere: di fronte a Dio e alla sua potenza appunto, tutto è piccolo e inadeguato.

Nel libro di Giobbe, allora, è possibile intravedere quasi, una legittimazione della protesta umana nei confronti di Dio a causa della sofferenza e del dolore che l’uomo stesso è costretto ad affrontare. Nel gran paradosso della fede, la protesta garantisce comunque la continuità della relazione con il Signore: diventa un nuovo modo di esprimersi, di rielaborare ciò che si sta vivendo e di rivendicare una lotta che non si rassegna al trionfo del male contro l’uomo e contro Dio.

Tale protesta mette in crisi non solo il sofferente, ma anche colui il quale giace al suo fianco. Di fronte al male è più facile voltare lo sguardo, esortare il dolente attraverso parole melliflue e melense: “non dire così”, “stai sereno” o, peggio, “pregherò per te”. Riconoscere l’enigma del male è la prima vera soluzione; tacere, poi, non solo un diritto, ma anche un dovere; portare la croce del fratello, infine, è pari al condurre il buon ladrone in paradiso. In buona sostanza, accogliere con rispetto la crisi, perseverare nella fedeltà, è la scelta di parte richiesta al credente.

Anche il vangelo ce ne insegna le note. Entrando nella casa di Simone e Andrea, Gesù trova la suocera di Simone malata. Senza una parola, senza lunghi discorsi, Gesù la guarisce dimostrando così la coerenza tra il suo agire e la sua predicazione. La preghiera di Gesù, poi, sembra essere l’arma capace di stanare il male. Il pregare del Maestro si comprende nei respiri del silenzio meditativo, nella cura del sé e nella crescita dell’identità personale. Nella preghiera Gesù ricostruisce le priorità, diventa egli stesso capace di libertà. L’idea di poter rinunciare a qualcosa rende l’uomo libero e, seppur affamato, traviato, con l’acqua alla gola, capace di raccogliere le proprie ceneri, ricomporle e dare il via alla risurrezione.

Giuseppe Gravante