Ci ha amato per primo e per primi.

At 10, 25-26.34-35.44-48; 1 Gv 4, 7-10; Gv 15, 9-17

Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia.

 

Il tema conduttore della liturgia della VI domenica di Pasqua è certamente dato dall’affermazione giovannea: «Dio è amore» (1Gv 4, 8). Pietro, protagonista delle vicende narrate dal libro degli Atti nella I lettura, afferma con vigore e parresia che «Dio non fa preferenze di persone» (At 10, 34); Egli, infatti, applica a ciascuno lo stesso metro di giudizio, sancendo così la “cattolicità” indiscriminata del suo modo di amare. Nella sua lettera, poi, Giovanni afferma «amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio» (1Gv 4, 7); fondando così, nell’amore di Dio, quello umano.

Tuttavia, discorrere intorno all’amore è abbastanza insidioso. È facile, infatti, cadere nel tranello della banalità e della retorica. L’amore non è riducibile a una mera emozione, a un sentimento passeggero che muta al cambiar delle stagioni e non è neppure sola “eruzione” di spontaneità: all’amore ci si educa! Certamente, l’agàpe evangelica assume tonalità teologali. L’amore descrive e identifica l’uomo, quest’ultimo è plasmato, infatti, a immagine e somiglianza di Dio. Cristo, allora, è lo specchio non opaco che ci permette di comprendere l’essenza di Dio. Egli è l’uomo perfetto, il vero compimento della nostra umanità.

In aggiunta, procedendo secondo l’impianto su cui si compone la lettera di Giovanni, si può affermare il paradigma preveniente dell’amore stesso: «non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» (1Gv 4, 10). Dio investe nei suoi modi oblativi senza mai prescindere dal vincolo cristologico: «Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui» (1Gv 4, 9). Questo è un amore capace di generare nuove dimensioni, decisamente liberanti: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici» (Gv 15, 15). Infine, è un amore che si cristallizza nella gioia: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11). Tutto il pellegrinaggio cristiano, infatti, sfuma le sue tonalità, secondo pantoni colorati e luminosi e mai addensandosi nel grigiore della tristezza. Dio desidera condividere la sua gioia affinché la nostra diventi piena.

Egli non ha avuto bisogno di gareggiare con l’uomo, ci ha amato per primo e, in Cristo, siamo stati i primi a eserlo; prima dell’uomo, dunque, nulla è stato amato (salvo il Figlio ovviamente). Perciò, «ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4, 10); Cristo è la sintesi della crisi della nostra umanità peccatrice.

In conclusione, è anche lecito sottoporre e sottomettere tutto alle condizioni poste dall’obbedienza. Questa, evidentemente, non si pone in contraddizione con quanto detto; infatti, essa si radica e si comprende esclusivamente nella libertà. Obbedire a Dio significa obbedire alla libertà: «Se osserverete i miei comandamenti – dice Gesù -, rimarrete nel mio amore» (Gv 15, 10). L’obbedienza è intessuta nelle trame dell’ascolto veritiero della sua parola: «la verità vi farà liberi» (Gv 8, 32). Obbedire è interiorizzazione, modulazione e realizzazione di tale parola. Obbedire è la condizione che permette un’amicizia speciale.

Giuseppe Gravante