Cosa resterebbe della vita senza l’aria?

Ez 47, 1-2.8-9.12; 1Cor 3, 9c-11.16-17; Gv 2, 13-22

Un fiume rallegra la città di Dio.

«Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù» (Gv 2, 21). In questo versetto del Vangelo di Giovanni, l’evangelista non intende raccontare solo un avvenimento, bensì stabilisce anche un percorso per tutti i credenti. La risurrezione, infatti, diventa per ogni cristiano vero e proprio punto di riferimento, lampada che illumina il passato di Gesù, permettendo di conoscerne le dinamiche.

            A buon motivo, i giudei, domandano a Gesù le ragioni di un simile operare, chi gli avesse conferito un’autorità tale da permettergli di entrare nel tempio e compiere azioni a dir poco inconsuete. Giovanni, dunque, interpreta e legittima l’autorità del maestro attraverso le parole del salmo 69. Il tempio è il luogo della presenza di Dio, il luogo in cui la gloria (kabod) risiede e si manifesta, il luogo nel quale a Dio deve essere reso culto e che non può essere trasformato in un comunissimo mercato. Dio e mammona sono certamente due realtà opposte!

            L’intenzione di Gesù è quella di purificare il tempio, di disintossicare una comunità – quella giudea – dai fumi annebbianti dell’avidità. Il profeta Ezechiele afferma che dal tempio purificato sgorgherà un’acqua feconda e vitale che “risusciterà” terre e luoghi ormai abbandonati alla morte. Nasce, dunque, una relazione svecchiata, quasi aggiornata, che stabilisce un dialogo profondo con il Signore della vita e della salvezza.

            Il vangelo che la liturgia propone nel giorno di questa festa (Dedicazione della Basilica Lateranense), afferma attraverso le stesse parole di Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere… Egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2, 19. 21). Vi è racchiuso, in tal contesto, tutto il desiderio del Padre, vale a dire affidarsi alla fede di specifici “adoratori” del suo mistero: quelli che credono che il corpo crocifisso e risorto di Cristo sia il vero tempio; vero luogo della presenza di Dio, vera manifestazione della fedeltà di Dio e di ascolto del grido doloroso e assordante del suo popolo.

            La liturgia, allora, non fissa il suo sguardo sulle mura antiche di un edificio, ma su ciò a cui esse rimandano. La Basilica Lateranense, indubbiamente, è la cattedrale del vescovo di Roma, il punto di riferimento per la fede e la carità. Ma essa afferma anche con chiarezza, attraverso la sua costitutiva sacralità, che non esistono luoghi paradigmatici per poter credere; il vero adorare risiede anzitutto nella relazione del credente con il suo Signore.

            Ogni veduta di questo genere consente di allargare la riflessione sul tema della preghiera. La preghiera è il primo segno che esprime la forza di un dialogo tutto speciale, essa è un vero e proprio respiro per l’anima. Pregare significa dimorare in questo spazio intimo; gustare la dolcezza di un rapporto fatto di ascolto reciproco, accoglienza, perdono. Pregare significa parlare di Dio come se fosse la propria fidanzata, la preghiera è dono di Dio, una relazione di puro dono. E difficile esprimere l’essenza di preghiera, ma si può immaginare cosa resterebbe della vita senza l’aria.

Giuseppe Gravante