Un’esplosione escatologica

At 1, 1-11; Ef 4, 1-13; Mc 16, 15-20

Ascende il Signore tra canti di gioia

 

Probabilmente, il rischio più gravoso al quale la riflessione sull’Ascensione del Signore deve far fronte, è quello di elidere nettamente tale avvenimento dal resto delle vicende pasquali di Gesù. Il mistero della Pasqua, infatti, si snocciola attorno ad un unico “campo semantico”: esso comprende in toto la passione del Signore, la sua morte, la successiva risurrezione, l’Ascensione al cielo e, infine, la Pentecoste. Pertanto, è ulteriormente evidente, come il tornare in vita del Maestro afferma con vigore e parresia tutto lo schiudersi della vita stessa dopo la morte, ulteriormente aggraziata dal successivo completamento offerto dalla salita al cielo dello stesso. Cristo, allora, si colloca nella dimensione trascendente della vita e ne sancisce una nuova possibilità.

Il mistero dell’Ascensione, dunque, è di natura squisitamente cristologica. Tuttavia, esso non può astenersi dall’enuclearsi verso significanze di natura antropologica. L’uomo, attraverso l’Ascensione, sperimenta sulla sua pelle il progetto realizzato di salvezza. L’Ascensione è una sorta d’imbuto trasverso, una “bomba” a detonazione che sancisce un’esplosione escatologica. Negli Atti è scritto: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1, 11). La prospettiva della Parusia indica nettamente il termine della storia e questo “tempo di mezzo” non è altro che il tempo della Chiesa, il tempo kerigmatico dell’uomo.

La speranza escatologica del cristiano, che si estende al desiderio dell’incontro ultimo con il Signore, molto spesso è tacciata di vigliaccheria; assume le sembianze opache di una fuga in avanti motivata dall’incapacità di gestire il presente. A tale obiezione, tuttavia, il libro degli Atti risponde attraverso una precisa domanda: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» (At 1, 11); esso, dunque, si pronuncia con chiarezza e dà una scossa prorompente alle coscienze degli uomini avvilite dal rimorso. Aprendosi così il tempo della Chiesa, l’invito che ne vien fuori è quello di guardare a terra, a coinvolgersi pienamente nella storia e a testimoniare una fede che non si fa dimentica di un futuro ultimo. La missione degli apostoli ne è esempio fulgido e, il loro partire, conferma indiscussa.

 

L’agire responsabile dei fedeli nella storia comincia con la conversione. Gli apostoli domandano al Risorto: «è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (At 1, 6). La domanda evidenzia ambiguità, confusione di senso sul ruolo messianico di Gesù. La chiave di volta capace di schiarire e mettere in risalto l’essenza del messianismo, diventa così la conversione: è necessario imparare a credere nel Dio di Gesù Cristo che cambia la vita. L’alterità del piano divino si “afferra” solo nel rispetto di una proposizione pura dello stesso, evirata da ogni parvenza di mondanità e agiatezza. La radice di tale alterità, allora, consiste precisamente nel diverso modo di concepire Dio: non un qualsiasi dio-idolo, ma il Dio rivelato da Gesù Cristo.

La Chiesa, nel tempo fra l’Ascensione e la Parusia, vive per annunziare il Vangelo: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16, 15). I segni che accompagnano la sua azione sono da interpretare. Gli evangelizzatori, ripetendo nella loro azione ciò che fece Gesù, ingaggiano una costante battaglia contro il male. Essi parleranno lingue nuove protesi verso la Pentecoste e al suo significato di superamento della pena conseguente al peccato di Babele. L’evangelizzazione è opera universale, la comunità dei discepoli, perciò, è chiamata a interrogarsi sulle modalità e sui linguaggi da utilizzare. I discepoli, dunque, sono tutti quelli capaci di interpretare i segni del proprio tempo, di mediare la grazia attraverso gli strumenti che esso offre e di riversarla su ciascuno in maniera limpida e schietta.

Giuseppe Gravante