Con la forza di quel pane

camminò quaranta giorni e quaranta notti…

di Giuseppe Gravante, S.S. Corpo e Sangue di Cristo – Anno A – 14 giugno 2020

Dt 8, 2-3.14b-16a; 1Cor 10, 16-17; Gv 6, 51-58

Loda il Signore, Gerusalemme.

La prassi cristiana, per sua natura, non può abbandonare o, semplicemente, trascurare la dimensione comunitaria propria alla Chiesa. Tuttavia, va notato che, l’eccessivo insistere su tale sfumatura, può condurre a qualche rischio.

Il primo inciampo in cui si può incorrere è quello di percepire la comunità cristiana esclusivamente su un piano psicologico. Gli uomini, per loro natura, necessitano di aggregarsi in gruppi, di vivere relazioni stabili con altre persone; tuttavia, la comunità ecclesiale stessa non può essere percepita solo nelle sue dimensioni affettive ed emotive. In effetti, risulterebbe essere poco bastevole, soprattutto nel momento in cui la sua funzione si ridurrebbe a pura compensazione delle proprie fragilità e difficoltà. Non si può fare comunità perché non si è in grado di stare da soli: ne verrebbe fuori solo un gruppo d’immaturi che cercano un nido caldo.

Un altro inciampo è quello di percepire l’ecclesia in termini meramente sociologici. La categoria di “popolo di Dio”, infatti, riscoperta e valorizzata dal Vaticano II, è per sua natura teologica, non sociologica. Il popolo di Dio non si costituisce di uomini e donne che scelgono e votano un determinato candidato al parlamento o partecipano alle primarie di un partito. Il popolo di Dio è l’insieme dei credenti che celebrano e praticano la fede cristiana. Senza la fede, ci sono le persone, ma non il popolo santo.

Un ultimo rischio si inscrive nell’ordine pratico: l’eccessivo dispendio di energie per la realizzazione di eventi e iniziative che si collocano sul piano aggregativo a scapito di quello spirituale. Spesso, infatti, proprio questi eventi e iniziative, producono frustrazione, personalismi, tensioni e conflitti che contraddicono ciò che vorrebbero testimoniare.

A tal proposito, è evidente che si può parlare di comunità solo se si punta tutto sulla comunione. La conclusione è immediata: per discutere di comunità, è necessario andare all’origine e, come ben sottolinea il vangelo di Giovanni, «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Gv 6, 56). L’assimilazione della carne e del sangue di Cristo rendono presente Gesù nel discepolo e il discepolo in Gesù. Il pane e il vino sono segni efficaci che compiono ciò che dicono.

Il pane è segno: tutti e quattro i vangeli stabiliscono un legame significativo tra esso e la passione di Cristo. Il pane è segno efficace ed è per questo suo “ontoparadigma” che la partecipazione al sacramento diviene partecipazione agli effetti della passione, al dono della pienezza della vita. Tutto il discorso di Gesù allora, volge verso una promessa, quella della vita: il Padre è sorgente della vita, il Figlio vive per il Padre e il discepolo per il sacramento di cui partecipa.

La terra promessa è il Regno; il pane è Cristo; la comunità è l’insieme dei credenti pellegrinanti verso il Regno. Per questo ciò che conta è la comunione; solo dalla comunione con Cristo deriva la vera comunione nella comunità, che permette a quest’ultima di essere profezia del Regno.