Il vero canto del cuore è la gratitudine

(2 Re 5,14-17; 2 Timoteo 2,8-13; Luca 17,11-19)

Ascoltiamo il Vangelo:

“Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!»”.

  Dieci lebbrosi all’ingresso di un villaggio, nove giudei e un samaritano insieme. La sofferenza li ha uniti, la guarigione li separerà” (Ermes Ronchi).

Gesù li incontra ed ascolta la loro richiesta esaudendola. Vengono inviati ai sacerdoti, per la rituale purificazione, e, mentre vanno, vengono guariti secondo la loro richiesta. Nove si accontentano della guarigione e fuggono via soddisfatti ed avvolti nella loro libertà ritrovata. Uno solo, lo straniero fra essi, sente la necessità di tornare indietro per ringraziare Gesù. E solo lui viene salvato oltre che guarito.

Le nostre preghiere, molte volte, sono liste interminabili di necessità che rappresentiamo a Dio, come se lui non conoscesse i nostri veri bisogni, e così lo trattiamo da sbadato o pretendiamo di essere i suoi segretari per ricordargli quello che deve fare. “… Il Padre vostro sa di cosa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate…” (Matteo 6,8). Invece è vuota e senza appuntamenti l’agenda per il ringraziamento di ciò che abbiamo ricevuto e delle premure di cui ci riveste ogni giorno la misericordiosa paternità di Dio. E’ uno scompenso questo che descrive il cuore dell’uomo: premuroso e mendicante nel chiedere, egoistico e avaro nel ringraziare. Chissà perché la gioia seppellisce il legittimo e doveroso rispetto che si deve avere per esprimere gratitudine e riconoscenza. La richiesta è sempre accompagnata da acume e da solerzia, il ringraziamento è avaro, debole o, addirittura, latitante.

Lo straniero che torna da Gesù ha compreso che la relazione con lui vale più della guarigione, il ringraziamento è condivisione della gioia come si era condiviso lo stato di necessità. L’egoismo ci fa arrotolare in noi stessi come un gomitolo che a forza di avvolgersi s’ingrossa sempre di più ma s’ingarbuglia in se stesso e diventa difficile snodarsi, srotolarsi per donarsi agli altri.

La gratitudine è il vero canto del cuore e la liberazione totale. Tutto è dono, tutto è grazia, dalla vita in poi, cioè dall’inizio. Quindi ciascuno di noi dovrebbe sempre cantare il suo inno di ringraziamento e questa dovrebbe essere la colonna sonora quotidiana che non dobbiamo mai spegnere ma sempre implementare perché la forza della gratitudine si accresca sempre più perché più profonda diventa la consapevolezza che tutto viene da Dio e a lui deve tornare come segno della nostra personale riconoscenza. L’Eucaristia è il ringraziamento più eccellente che l’uomo possa dare a Dio e disegna questo venire ed andare verso Dio.