Non si addormenterà, non prenderà sonno, il custode d’Israele

Gb 38, 1.8-11; 2Cor 5, 14-17; Mc 4, 35-41

Rendete grazie al Signore, il suo amore è per sempre

 

Di frequente, nel parlare comune, è utilizzata con una certa nonchalance l’espressione “il male assoluto”, come a voler descrivere una condizione o la qualità di un avvenimento non esattamente positiva. Va anche detto che, a cominciare dalle circostanze in cui si versa, il male assoluto spesso è identificato nella Shoah, in avvenimenti tragici legati alla mafia, al terrorismo islamico, alle foibe o quant’altro di simile. Tuttavia, si converrà sul fatto che, ogni esagerazione procura danno; così come la confusione mentale su tali questioni.

Evidentemente, solo uno stolto negherebbe la portata “diabolica” e malvagia degli eventi o circostanze narrati in precedenza, ma è pur vero che il male assoluto, per sua definizione, non conosce avversari di pari grado. Prudenza vuole, allora, che si ammetta il principio metafisico e non subordinato del male assoluto e, al pari, tutta la sua scandalosa efficacia districata in quegli eventi storici che di esso sono epifanie.

Innanzi a ogni sua manifestazione, dunque, la coscienza umana non può che rimanerne turbata, sconvolta, afflitta e dubbiosa; pertanto, l’interrogativo che ne vien fuori è il seguente: Dio dov’è? Dov’era?

Lo stesso, seppur mediato da circostanze differenti, è il pensare dubbioso dei discepoli spaventati dall’impeto della tempesta che li assale. Oggi si dirà: la Chiesa dov’è? Dov’era?

Il Maestro, però, seda la tempesta. Il miracolo operato da Gesù ha riscontri sinottici, ma sorprende la diversità di approccio dei tre evangelisti. Matteo e Luca trasudano pacatezza o per dirla breve sono “contenuti”: «Salvaci, Signore, siamo perduti!» (Mt 8, 25); «Maestro, maestro, siamo perduti!» (Lc 8, 24). Marco, invece, è il più aggressivo nella narrazione, facendo emergere una certa ruvidità d’interpretazione: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (Mc 4, 38). È chiaro come in Marco angoscia, fatica, rabbia e fastidio siano le emozioni più consone ai discepoli in balia delle acque. Questa, allora, è la tipica situazione di chi vive il travaglio dell’abbandono di Dio: «Svegliati! Perché dormi, Signore? Destati, non respingerci per sempre!» (Sal 44, 24). Parole che scaturiscono dalla fatica di vivere. Parole di protesta. In ogni modo, parole di preghiera.

Tuttavia, sempre nel libro dei Salmi si trova il soccorso a tutto ciò: «non si addormenterà, non prenderà sonno, il custode d’Israele» (Sal 121, 4). Gesù, infatti, «si destò, minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”» (Mc 4, 39). In Marco emerge ulteriormente il linguaggio tipico di chi “esorcizza”, Gesù affronta il caos prodotto dagli elementi naturali come se di fronte a lui ci fosse un demònio. Egli, come Dio agli albori della creazione, domina il mare, emblema del caos, metafora del male che può sommergere e distruggere, elemento indomabile e insicuro. Dio – si ricorderà – nella creazione aveva gradualmente contenuto e delimitato le acque. Il suo fu un “fare ordine”, ordinare gli elementi naturali secondo il metro dell’armonia che, a sua volta, è palese contrassegno della sua stessa potenza. Con le parole di chi domina, Gesù agisce come Dio: Gesù è Dio!

La fede degli apostoli, però, sa ancora di acerbo, di immaturo: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (Mc 4, 40). Il turbamento è ancora l’atteggiamento padrone. S’interrogano: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?» (Mc 4, 41). La risposta giungerà, ma solo alla fine del vangelo e per l’inaspettata professione di fede di un pagano. «Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15, 39).

Ciò dice e designa qualcosa di importante, di complesso e nel contempo straordinario: la fede matura si esprime solo ai piedi della croce. La croce, infatti, è il luogo in cui si rende possibile la condivisione del dolore tra Dio e l’uomo. Essa è cattedra che produce insegnamento, ma è tale perché vi siede il Maestro. È Gesù, allora, che legittima la croce rendendola segno di divinità. La croce, pertanto, è la risposta alle incalzanti domande dell’uomo.

In conclusione, sono il crogiuolo dell’inquietudine e della rabbia, l’incudine del dolore e il martello pungente dell’afflizione ad attestare la maturità della fede. Evitare tale percorso, non conduce in nessun luogo, se non in quello di una fede annacquata e annaspante, sommersa dalle acque burrascose del nulla che ammalia. La grandezza dell’uomo, infine, non sta nella capacità a lui propria di trovare risposte, ma nell’infinita risorsa di porre domande e, in più, domande giuste. Queste, infatti, non sanciscono la chiusura definitiva di una discussione, ma aprono al di più, all’altro e a infinite e fresche nuove strade.

Giuseppe Gravante